20.10.09

christine dalnoky

"Ho scelto di fare la paesaggista per amore della città. Non sono una specialista del verde, non sono una fanatica del giardinaggio e detesto andare nei parchi. Quello che ho scelto è un mestiere strano e dai contorni sfumati, vago, per questo mi piace.
Ho lavorato con grandi architetti come Piano, Rogers, Nouvel. Non facciamo due lavori diversi. Entrambi, architetto e paesaggista, inseguiamo l’arte del contesto. Il mio interesse non si ferma alla soglia dell’edificio, e lo stesso vale per l’architetto. Non ho un settore di competenza esclusivo, ma un modo di guardare al mondo, quello sì.
Oggi, per lavorare ad un progetto disegno sempre di meno e scrivo sempre di più. Quello che più mi interessa è l’emozione: il cielo, le ombre, la gente.
I paesaggisti spesso non conoscono la città, e non capiscono l’architettura. Si direbbe che non sappiano nemmeno che cosa sia la natura, dal momento che sembrano capaci solo di ridurla a praterie verdi e alberate. Invece la natura di cui si devono occupare è altrove.
A Parigi è quella del cielo sopra la collina di Montmartre, della vista dei tetti quando si sale al Beaubourg, del vento tra i capelli quando si attraversa un ponte sulla Senna. Un vero parco a Parigi è fatto del cielo e della Senna, e non si trova né nei parchi di Bercy, né di Citroen.
La natura è il nostro contenitore emotivo contemporaneo.
Eppure il rapporto tra città e natura si è sviluppato come una relazione fatta di dominio, potere, paura e asservimento. Alla fluidità, all’imprevedibilità, alla libertà, ai rischi del mondo vivente la città oppone il proprio ordine, il rigore, la geometria, cercando di imporsi su un territorio geografico. Troppo spesso gli alberi in città sono considerati solo come un arredo urbano. Per me, invece, sono dei prigionieri. A volte usciamo dalle nostre mura per affrontare la natura, andiamo a caccia di emozioni, di sentimenti primitivi che ci facciano sentire ancora un po’ vivi.
Mi piacciono i vecchi platani secolari del sud della Francia, quando non sono stati mutilati dalle potature, che deformano il terreno e offrono una magnifica ombra, molto più bella di quella che potremmo fare noi, nei nostri progetti.
Allora ci viene persino voglia di proteggerla la natura, di salvarla. La città tenta di riprodurre delle rappresentazioni asettiche di questa natura indomabile. Simulacri di paesaggio immaginario che noi chiamiamo parchi pubblici. Come ci si reca allo zoo a vedere gli animali selvaggi, si va al parco per vedere la natura, vicina a casa e raccolta nello spazio costretto e limitato che l’architettura ha voluto concederle, e che la rassegnazione rende sinistro. Chiunque si sia trovato a passeggiare per un parco parigino in una giornata grigia, capirà.”

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